Simona Stano racconta come la pandemia ha cambiato il nostro rapporto con il cibo
Il sole splende su Mantova per il terzo e ultimo giorno del Food&Science Festival. Sul palco di piazza Mantegna, Simona Stano, intervistata da Beatrice Mautino, ha raccontato al pubblico e ai passanti che si fermano curiosi ad ascoltare, come la pandemia abbia cambiato il nostro rapporto con il cibo. Stano è una semiologa dell’alimentazione all’Università degli Studi di Torino e Visiting Research Scholar presso la New York University (Stati Uniti), e si occupa di studiare e analizzare, non gli aspetti materiali, ma i significati e i sensi dell’esperienza alimentare. A differenza di quello che siamo abituati a pensare, ha spiegato la ricercatrice, il nostro rapporto con il cibo è fondato su delle norme non scritte che derivano da usi e costumi del tessuto socioculturale in cui viviamo, e per cui fortemente influenzato dal momento storico. La definizione di cibo commestibile, per esempio, può avere significati molto diversi a seconda del contesto. Se da dizionario il termine commestibile comprende tutto ciò che si può mangiare e non è tossico, a livello etico e culturale la definizione assume sensi diversi a seconda della popolazione che viene interrogata. L’ormai famosissimo pangolino è sicuramente vittima di queste contraddizioni, se da una parte noi riteniamo culturalmente ed eticamente non accettabile mangiarlo, dall’altra, la medicina cinese attribuisce alla sua consumazione proprietà esoteriche e magiche che ne rende difficile, se non impossibile, una regolamentazione a livello normativo. Se nel mondo asiatico, la pandemia ha messo nuovamente in discussione la vendita e il consumo di certi animali nei mercati come quello di Wuhan, anche nel nostro paese il rapporto con il cibo ha subito una sostanziale metamorfosi, che ha riguardato la demonizzazione dei ristoranti cinesi prima, e la nascita di un rinnovato interesse per il cibo tradizionale e la convivialità poi. La neofobia e la xenofobia, paura del nuovo e paura del diverso, sono ben radicate nella nostra cultura, tanto che, ha ricordato la ricercatrice, per molti anni si è parlato di sindrome da ristorante cinese, riferendosi a una serie di sintomi – non supportati scientificamente – causati dal consumo di alimenti della cucina cinese, ricchi di glutammato monosodico. Delle ulteriori metamorfosi sono poi avvenute durante il confinamento, dove la foto dell’apericena è stata sostituita dalla pizza fatta in casa, simbolo del cibo tradizionale che ha un valore nostalgico e rassicurante. Il confinamento è stato anche acceleratore di una convivialità ritrovata. Se prima l’attenzione era focalizzata sul piatto, ora protagonisti sono le persone, i pasti vengono condivisi su Zoom o Skype, la convivialità tipica del nostro paese che per molto tempo era stata data per scontata, diventa occasione di incontro e di benessere. L’intervento si è concluso con uno scroscio di applausi dal pubblico, che sicuramente ha avuto l’occasione di riflettere su quanto complesso sia il nostro rapporto con il cibo che mangiamo.